Il doppio tampone sancisce la fine della fase acuta della malattia da Sars-CoV-2. Ma per un recupero completo occorre un percorso riabilitativo

I pazienti colpiti dal Covid-19 vanno innanzitutto identificati. Poi, trattati. E infine, se necessario, supportati per tornare a fare ciò che era nelle loro possibilità prima della malattia. La riabilitazione è uno dei temi posto sul tavolo dall’emergenza Coronavirus. Non meno rilevante degli altri, sebbene l’elevata velocità dei contagi e la sospensione delle prestazioni non urgenti abbiano inizialmente fatto scivolare in secondo piano il recupero dopo la fase acuta della malattia. Ma adesso che oltre 35mila persone hanno messo alle spalle o si apprestano a superare l’infezione da Sars-CoV-2, è in crescita la quota di connazionali impegnati per recuperare la piena efficienza fisica. Un percorso che, soprattutto per chi ha affrontato un ricovero in terapia intensiva, si preannuncia lungo e graduale.

Oltre a essere subdola, la polmonite interstiziale che caratterizza la malattia provocata dal nuovo Coronavirus è molto debilitante. I racconti dei medici e dei pazienti che hanno registrato un’evoluzione positiva del Covid 19 sono pressoché unanimi. L’esito negativo del doppio tampone dà una risposta – parziale, in alcuni casi – al problema della contagiosità. Ma non pone fine al percorso di malattia.

Al momento, non esistono linee guida condivise per la fisioterapia respiratoria rivolta ai pazienti colpiti dal Covid-19. Quello che si sa è che però ne abbisognano pressoché tutti, tra coloro che sono stati curati in ospedale: anche in ragione dell’elevata età media (64 anni) di chi ha sviluppato i sintomi più gravi della malattia. Intensità e durata della riabilitazione dipendono, in linea generale, da quanto lunga è stata la degenza. L’assenza di indicazioni condivise da parte della comunità scientifica sta rendendo disomogenea l’offerta nei confronti dei pazienti. A ciò occorre aggiungere che la capillarità di strutture deputate a svolgere un simile ruolo non è uniforme lungo lo Stivale. 

Per chi è stato ricoverato, vale come indicazione generale, “la riabilitazione dovrebbe avvenire in strutture ad hoc: Covid-19 è una malattia che mette a dura prova la forza e l’efficienza della muscolatura respiratoria”. L’ideale sarebbe dunque affrontare una seconda degenza. Ma di quale durata? Per chi è reduce da un ricovero in terapia intensiva, può essere necessario un percorso di almeno 2-3 settimane. Un periodo compreso tra 5 e 10 giorni è invece quasi sempre sufficiente per tutti gli altri pazienti. Il resto, se necessario, lo si può fare recandosi in ambulatorio per ulteriori 3-4 settimane.

Nei prossimi mesi occorrerà comunque studiare quale margine di recupero abbiano le persone ammalatesi di Covid-19. Analoghe valutazioni compiute ai tempi della Sars hanno descritto una riabilitazione pressoché completa per coloro che erano stati colpiti dall’infezione in maniera meno aggressiva. Nel caso dei pazienti ricoverati in terapia intensiva, invece, per 1 su 5 la funzionalità respiratoria non era del tutto ristabilita a un anno dalla dimissione dall’ospedale. Un rischio analogo, sulla carta, riguarda chi è reduce dall’infezione da Sars-CoV-2. Di sicuro, non è questo il momento di trascurare questi pazienti. Perché, indipendentemente dalle cause, chi supera una polmonite è incline a sviluppare nel tempo altri problemi di salute. La sua previsione deriva da quanto osservato nei reduci dalle infezioni più gravi. L’ infiammazione a cui sono esposti prima i polmoni e poi l’intero organismo sarebbe un terreno fertile per vedere aumentare i casi di infarto, ictus e malattie renali. A ciò occorre aggiungere che Covid-19, nelle forme più avanzate, sembrerebbe colpire anche altri organi: dal cuore al cervello, fino ai reni e probabilmente il fegato. I più a rischio, oltre agli anziani, sono coloro che necessitano del ricovero in terapia intensiva. Una ragione in più per identificare e trattare quanto prima ogni paziente che, da oggi in poi, si ammalerà di Covid-19.

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